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Scholarly Editing

The Annual of the Association for Documentary Editing

2015, Volume 36

Lo Stufaiuolo by Anton Francesco Doni: A Synoptic Edition (V)

by Anton Francesco DoniEdited by Elena Pierazzo

[Valentiniana Manuscript]

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[f. 2r]
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LO
STUFAIUOLO
DEL
DONI.
COMEDIA

[p. 2v] [f. 3r]
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Al R[everendissi]mo S[ignore] Pietro Cesis, mio Signore: et [cetera]
Per che le lettere sono state sempre poste ne i degni et honorati luoghi; si p[er] alzarle
a maggior gloria, come per riverir co[n] quelle i signori meritevoli: peró ciascuno che ne
fa professione, co[n] tutto il potere et valor suo, le consacra co[n]tinuamente a gli honorati –
signori illustri di quella etá. Ecco p[er] debito mio, et merito di V[ostra] S[ignoria] R[everendissi]ma ch’io vi porgo
un picciol mio presente d'una Comedia, accompagnata co[n] un saggio di musica, de suoi
intermedi;3 Gli spartiti degli intermezzi qui menzionati non sono stati localizzati. Doni era un musicista e un compositore molto rispettato, come dimostra il suo Dialoghi della Musica, pubblicato a Venezia nel 1544. Non nuova è anche la pratica di accompagnare le sue opere con pezzi musicali; si veda infatti il manoscritto delle Nuove Pitture, datato 1560 (Ms Patetta 364 della Biblioteca Vaticana) che contiene una serie di pezzi musicali dopo il testo principale. Tali brani rappresentano una curiosità codicologica: infatti le note sono rappresentate in forma di sonagli, campanelle, fori e topi (si veda l'edizione facsimilare Le nuove pitture del Doni fiorentino: libro primo consacrato al mirabil signore donno Aloise da Este illustrissimo e reverendissimo: Biblioteca apostolica vaticana, ms. Patetta 364, a cura di S. Maffei, Napoli, La stanza delle scritture, 2006) Se la diletterá alla S[ignoria] V[ostra] R[everendissi]ma mi sará cosa grata; & in piu honorato
luogo scriverró il nome suo, degno d’ogni honore, et d’ogni riverenza: p[er] mostrare al –
mondo, come sono stato sempre servidore alla Ill[ustrissi]ma nobiltá di casa CESIS, & co[n]
riverenza le bacio le mani: & infinitame[n]te mi racc[oman]do.
Di V[ostra] S[ignoria] R[everendissi]ma
Servitor’
Il Doni Fiorent[i]no
[p. 3v] [f. 4r]
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PROLOGO

SIGNORI Spettatori Ill[ustrissi]mi magnifici, reali, et
come voi volete, Con tutte queste bellissime donne, siate i ben
trovati. E son forse parecchi mesi, che io mi acoppiai cosi postic =
ciamente,4Senza vincoli legali, more uxorio, probabilmente. co[n] una bella cortigiana Todesca; la quale come –
udirete ha presa la mia lingua tanto bene che la par nata –
in Italia come me. Io sono stufaiuolo de primi di questa Città
per che apicco, mirabilmente cornetti,5Strumenti usato per i salassi (GDLI), ma con riferimento alle corna, un tema ricorrente in tutta la commedia. & ho nome Gottardo, pur
di razza Todescha, ma sono attalianato benissimo, et p[er] questo credo che la Sig[nor]a Druda
che cosi si fa chiamare, m’habbia posto amore: Senza dirvi che la carne tira:~6Cf. La Mandragola, Atto III, sc. II.
Non si dice egli per proverbio, tagliami le mani, e i piei: et gettami fra miei.~ Hora p[er] no[n]
havermi lasciato mio padre possessioni, sto qui a stufare, tenendo a camere locande. Et
pur hora come mi vedete sotto questa vesta nudo, della stufa io vengo. Lei sta quá; et
per una porta falsa ch’ella ha dietro (la casa) entro, et esco, et ella riceve i nudi stufati.
et usiamo ogni cosa sottosopra, lei et io p[er] indiviso. oOltre al lavare, io ho imparato una virtú
et é questa di dire alle comedie, et se no[n] era questa ricca, et bella Tedesca che smania
come io mi spicco da lei; saria andato qui presso a fare il prologo a un’altra comedia detta
la Bolgetta, una favola di velluto; o io credo che la vi sodisfarebbe assai se la vedeste.
Horsu p[er] adesso no[n] voglio dirvi del fatto nostro altro. Io son quá per farvi un’argome[n]to
d’una nuova Comedia, un caso di poche hore, et spedirovvi tosto; poi che ho dirizzata
la fantasia, a cioche sommariamente la contiene, et no[n] istaró a menar la cosa lunga –
et lentamente, facendovi stentare come fanno i vecchi che dicono le cose loro adagio =
adagio, col tornare hora indietro, et hora con l’adoppiar le parole, onde la risolvono in
fummo. hora state fermi, et datemi dolceme[n]te udienza:~
[f. 4v]
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Un n[ost]ro mag[nifi]co sta in questa casa, et ha una moglie che tolse p[er] amore; una fanciulla Genovese
allevata in casa sua: tenete bene a mente, et state saldi, ch’io no[n] gettassi le mie parole al ve[n]to:
et si chiama Laura, una delle belle giovani di questa cittá, et p[er] le bellezze, sue é famosissima.
Ella ha due amanti, uno sta quí co[n] la mia cortigiana, un ricco mercatante fuor uscito scono =
sciuto, che se ne va in habito humile p[er] salvar la pelle, et ha la donna sua chiamata Maddalena,
la quale sta al governo della casa di questo mag[nifi]co & é una donna d’ingegno et Laura fa cioch[e]
la vuole et portagli un grande amore. In questa Stufa, l’altro inamorato fa no[n] so che rubame[n]ti –
et scambiamenti di panni, Onde aviene che quasi tutte le persone mutano habito: Tanto che
p[er] una scena, ne vedrete due, essendo gli strioni,7Attori. La forma si deve preferire all apure possibile "gl'istrioni", anche sulla base di "L’autorità del Carafulla, strione della mia comediadello Stufaiuolo (La Zucca, Ic 16 9). quasi tutti indue habiti sopra di quella:~
Una vedova la quale é sorella naturale del mag[nifi]co inamorata d’uno di quegli ama[n]ti di Laura
é cagione che ogni cosa torni a segno. La sta qui da lei infuori si traveston tutti; una bella tirata
vi prometto. Se starete cheti la Comedia si fará: et inparerete nelle stoltitie d’Amore a raffre –
narvi. Tollerete [sic] gli affanni, sempre sperando bene. Conoscerete che no[n] é da fidarsi del mondo:
sarete cauti nel tenere fante, et servidori, p[er] veder come sono tutti d’una buccia: et fuggirete le
pazzie della vecchiaia, le quali son’ molto licentiose. Et p[er] tenervi allegri, et senza sonno, vi so dire
che voi riderete di bei pezzi. Ma ecco apunto che sul meglio del dire, e mi vien da costor’ qua, rotto =
l’huovo in bocca.8Togliere bruscamente la parola. Io son forzato a no[n] seguitare piu l’argome[n]to. Attendete adunque a loro, che
piu inanzi entreranno co[n] la cosa, et meglio; p[er] che sará vede[n]do, un toccare quasi il fondo del vero.
ma no[n] lo credete altrime[n]ti, p[er] che quello che giá fu dadovero, é hora in comedia ridotto, et chia =
masi lo STUFAIUOLO, mi racc[oman]do Alle S[ignorie] V[ostre]:~
LA SCENA É VINEGIA

persone della Favola

Cesare, et

Maddalena sua donna

Laura moglie di m[esser] Niccoló,

Taddea sorella di m[esser] Niccoló.

Vincenzo inamorato di Laura

Caterina fantesca

Niccoló vecchio.

Gottardo Stufaiuolo

Bigio famiglio.

Corrieri.

Druda Cortigiana

Magnano:~

[f. 5r]
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LO STUFAIUOLO COMEDIA

ATTO PRIMO

PRIMA SCENA CESARE, et MADALENA.
Cesare.
Tu sai la compagnia che io ti ho fatta, tanti, e tanti anni, che hoggimai possian dire –
d’esser vecchi. Hora tu vedi come io sono aflitto, et no[n] posso dire per che.~
Madalena.
Questo é il dolor mio, di no[n] saper qual cagione ti stringe, a tanto martire: lo esser fuori –
della Patria tanto tempo, mai ti ha dato occasione si fiera di torme[n]tarti il core; lo havere
smarriti, o perduti due si cari figliuoli, l’essere come schiava, no[n] mi pesa, ne a te mai –
lo star cosi sconosciuti ti ha aggravato. No[n] ho io in petto, et nella cassa gioie, et danari
da provederti, se voglia alcuna di andare, di riposarti, o far qualche impresa che ti co[n]forti.
dimmi caro marito horamai la pena tua. Io son pur colei che ho tutti i tuoi secreti suggellati
nel cuore, p[er] che no[n] mi palesi tanta tua malinconia.~
Cesare.
Poi che tu mi stringi co[n] l’amore da un canto, et l’esser vicino alla morte dall’altro, io ti –
prego ad aiutarmi, che puoi, et conservare questa vita, la quale é tua.
Madalena.
Io comincio a pigliar’ animo, et veggo la strada dove viene il mal tuo, hor di allegra =
me[n]te, et sta di buona voglia, che p[er] la tua cento, et mille volte metterei la mia.
Cesare.
Ecco che no[n] senza rossor di viso, et co[n] gran fatica, io mando fuori questa parola. Laura é =
quella che mi priva di tutti i diletti, et della vita; et il tuo tanto amarmi, mi ha condotto al –
fine come tu vedi, volendo piu tosto morire, che palesarti tanto mio pensiero: se ti piace ch[e]
io muoia, che altro rimedio no[n] ho. Eccomi all’estremo; se due volte mi vuoi dar la vita, per –
donami, et aiutami: tu far lo puoi, ancora che mal fatto sia, ma contro alle forze d’Amore
in questa mia matura etá: no[n] ho trovato riparo alcuno che baste, a ogni altra cosa ho =
posto termine, salvo che a questo, che lo conosco errore universale; o Dio aiutami.
Madalena.
E pare che tu no[n] possi p[er] il dolore finir’ la parola, ritorna in té, sta su allegro, et pensa che
a tutte, o la maggior parte delle cose, ci si trova rimedio.
Cesare.
O quanto é infinito l’amore che tu mi porti.
Madalena.
Certame[n]te che dal capo alle piante, tutta mi son co[m]mossa: p[er]cioche due estremi casi in un =
[f. 5v]
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medesimo punto m’hanno assalita. Il piacere della tua vita, et il dispiacere di lei
la quale so certo esser giovane honestissima, da no[n] la co[m]muovere p[er] alcuna cosa, o di pregio
o di valore: ella é tutta casta, tutta savia, tutta honesta, et mi pesa che questo tuo amore
no[n] sia in quale esser si voglia donna che io conosca, salvo che in costei: guarda sorte.~
Cesare.
Maligna p[er] me, poi che la mi torrá la vita.
Madalena.
No[n] ti perder cosi tosto, che io spero di farci qualche utile rimedio; Apunto la vedova esce
di casa, vattene, et ritorna, ch’io faró tutto bene.
Cesare.
Sta sana: O infelice la mia etá.
SCENA II. Laura, Taddea et Maddalena:~
Laura.
Si che tu hai udito cara cognata, qua[n]te me ne faccia questo vecchio; ma io mi dispongo
in ogni modo di giungerlo una volta sul fatto: se tu mi aiuti come mi hai promesso.
Taddea.
E no[n] son p[er] mancarti a dio.
Madalena.
Molto no[n] restate che é notte.~
Tadea.
No[n] mancherebbe altro, a star’ senza la licenza di quei di la da casa.9La licenza per andare in giro di notte. In molte città era d'obbligo ottenere una licenza per aggirarsi per le strade dopo una certa ora, per non essere scambiati per criminali o prostitute. Conforta Laura che quel –
vecchio la fa viver discontenta, va poi tu; et maritati, co[n] questi, o simili huomini randagi.
Madalena.
A ogni modo l’é mala cosa a dar di naso a qua[n]te carogne sbarcano in questa Cittá, pure
che una volta ei creda di no[n] l’haver veduta piu, ei fa la pratica, e tre giorni gli bisognano
a mettersi in ordine, il tutto é che se ne vanta; quando egli é allegro dopo cena la sera,
et é geloso sopra mercato.
Tadea.
Egli é mio fratello, ma no[n] gne ne risparmio una, sempre gli dico che egli ha mille torti, et
lo carico di villania, ma tutti i pari suoi in quella etá; o la piu parte; sanno di scemo.
Madalena.
Forse che Laura no[n] vale un castello.~
Tadea.
Bene é vero. Hor lasciamo andar’ questo caso et saltiamo in un altro; dimmi cara sorella
mi posso io fidar di te.~ et senza farti piu parole, scongiuri, o preghi, poss’io realme[n]te sfogarmi –
teco, d’un mio segreto.~
Madalena.
Io ho sempre udito dire, che chi no[n] vuole, che una cosa si sappia, no[n] la dica: ma in questo caso
tu lo dirai a te medesima, ma se tu no[n] lo puoi tenere, come lo riterrá un’altro.~ pure lo haver
bisogno di aiuto é forza. Se voi di soccorso a me possibile havete di mestiero,10'Avete necessità'. dite sicurame[n]te,
no[n] accadendo opera che io possi fare in vostro pró: tenetelo nel core; p[er] che molto meglio fia
allogato in voi, che in quale altra persona si voglia.
Taddea.
No[n] posso far di manco, et p[er]che io so qua[n]to sia la tua realitá, senza piu ciancie ti dico, che d’
un bel forestieri inamorato di Laura io sono tanto invaghita, che no[n] so stare altrove che
in questa casa, p[er]che pochi giorni fallono, che due, e tre volte, egli no[n] ci passi, et co[n] il vederlo
mi quieto, benche poco.
Madalena.
Laura da ella occhio, a cotestui forse.~
[f. 6r]
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Tadea.
Apunto ne anche volge pur gli occhi, se per sorte la si abatte alla gelosia, come colei che é
di diaccio inpastata. Io sono come tu vedi vedova, a pena viddi il marito, et mi pare
strano l’esser sola, et niuno cipensa.
Madalena.
Et che effetto che vi giovi posso far’ io in questo caso.~
Taddea.
Dimmi prima, se tu mi vuoi aiutare.~
Madalena.
Con l’honor di casa, et mio faró ogni cosa.
Tadea.
No[n] ne fia nulla.
Madalena.
Adunque ci ha andare l’honore di tutti.~ o questa é poca fatica ad accomodarsi, come la si
da p[er] il mezzo basta.
Tadea.
Intendi cara sorella, l’honore in qua[n]to che ogni cosa fia coperta: esso, tu, et io che saranno
tre persone, lo sapremo, altri nó.
Madalena.
Pur che no[n] sieno come dice il vulgo, chi va, chi viene, et chi stá: ma fatemi questo conto
piu particolarme[n]te.
Tadea.
I modi ci sono assai, pure che una di casa mi sia fidata: e a te no[n] mancheranno stratage[m]mi –
et a me che son punta dal fuoco amoroso, asottigliatore de cervelli grossi: brevemente,
co[n] il nome di Laura, faremo uno inganno.
Madalena.
Cara Taddea, a condur ben le cose bisogna ottimame[n]te pensare, et megli [sic] seguire: ma ditemi –
voletelo p[er] marito.~
Tadea.
S’io potró si, qua[n]to che nó p[er] amante.
Madalena.
Io favelleró co[n] voi in altra maniera fuori del vostro discorrere. Conosco apertame[n]te la ver =
gogna di casa, et vostra. Voi dite che amore e buon maestro in questi casi: ma egli é peggio
la cecitá della mente, che la grossezza del cervello. Laura no[n] ha ella marito.~ come
cotestui si troverrá ingannato come andrá ella.~
Tadea.
Potrebbe essere che io lo rivolgessi al mio intento, co[n] le parole, co[n] la pietá, co[n] l’amore, co[n] preghi,
et altre cose assai come accade.
Madalena.
Una certa perdita é qui co[n] un dubioso acquisto, gli huomini son duri di cuore, i piú: et di
lor fantasia, poco si curerá di voi; io no[n] ci veggo nulla di buon taglio; pure il pensare
qualche hora sopra questo caso, potrebbe far nascere qualche buon fungo, in questo mezzo
consigliatevi co[n] il vero, et no[n] vi lasciate ingannare all’ombra.
Tadea.
Sia con Dio, io andró a casa inanzi che sia buio; vedete la non so chi che guarda, et sta turato.
Madalena.
Guardi qua[n]to vuole.
Tadea.
La prima occasione che mi venga di tornare qua, provederemo al possibile.
Madalena.
Cotesto si fará tosto ma all’impossibile pare a me che s’habbia da provedere: Buona sera.
Tadea.
Sta sana.
Madalena.
Et voi ancora:~
[f. 6v]
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SCENA III. Vincenzo, et Caterina.
Vincenzo.
Da poi che il mio padrone ricco mercatante mi tolse da piccolo in casa: sempre mi ha te =
nuto in viaggi di nave, almanco no[n] mi havessi egli fatto havere giá due anni sono tanto otio;
che io no[n] sarei cosi trafitto dalla passione continua d’Amore. L'andar p[er] questa Cittá co[n] gli –
occhi fissi nel volto di questa, et quell’altra giovane, senza pensiero alcuno, mi ha condotto
a tal termine che io no[n] ho un hora di bene =
Caterina.
Tentenna tentenna; tanto tentennai, che s’aperse.
Vincenzo.
Ne riposo giorno, et notte.
Caterina.
Io credo che sia piu di tre anni, ch’io no[n] l’apersi mai.
Vincenzo.
O Laura, O Laura, del mio cor fermo pensiero.
Caterina.
Et se no[n] era il Bigio che tanto mi fastidí una sera, a voler fare un suo servigio: che il vecchio
no[n] lo sapesse, no[n] havrei messo mano a quella strada. La padrona me lo ha fatto usare stasera
un’altra volta, et son tutta traffelata, p[er] la pena d’aprirlo: egli s’era come no[n] usato quasi
apiccato l’uno sportello co[n] l’altro. Io vo a chiamar’ la Taddea che venga a starsi stanotte
co[n] Laura: la poteva pur dimorare un’altro poco a andarsene che no[n] havrei havuto
questa stracca, di menar le gambe in fretta in fretta.
Vincenzo.
Che cicala questa cornacchia, egli é meglio che io mi acosti; O quella giovane, ricogliete
il fazzoletto. che v’é dietro.
Caterina.
Gran mercé messere. Ma state; e no[n] é mio, che ci son dentro danari.
Vincenzo.
Tanto meglio p[er] voi, ne mio ancora. guardate bene.
Caterina.
Ditemi che moneta é questa: no[n] mi strignete la mano.
Vincenzo.
Tenevo, accioche no[n] vi cadessino,
Caterina.
Mai piu ho veduto di si fatte monete grande, come si chiama ella q[uest]a.
Caterina.
Spendonsi eglino p[er] tutto.
Vincenzo.
Per tutto nó: ma in buona parte del mondo.
Caterina.
U. u. no[n] mi toccate cosi: e par che voi mi vogliate maturare, a spremermi cosi attorno.
Vincenzo.
No[n] posso io poi che sono stato cagione che cotesti danari sien vostri, accostarmi co[n] le carezze.~
Caterina.
Voi havete quelle mani sode; andate in la, che begli atti, da fare a una pulzella.
Vincenzo.
Chi é bella ha da essere ancora gentile cara massaretta.
Caterina.
Se io havessi i miei panni buoni dal di delle feste, forse forse, che no[n] mi dileggeresti.
Vincenzo.
Ho io lo credo, tu sei ancor bella cosi. dimmi speranza che é della padrona.~
Caterina.
Enne bene, p[er] che.~
Vincenzo.
Io ho un’ no[n] so che pendente ch’io gli vorrei donare, porterestignene tu.~
Caterina.
Dio me ne guardi, no[n] porto polli,12Portare polli: favorire una tresca amorosa (GDLI). no[n] voglio delle mazzate, lasciatemi andare a fare –
[f. 7r]
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una faccenda p[er] lei che importa.
Vincenzo.
Puossi ella sapere.~
Caterina.
Io ve la diró, ma tenetemela secreta.
Vincenzo.
Per questa croce della n[ost]ra donna, che mai tu ne sentirai; madesi.
Caterina.
Vo a chiamare la sua cognata che venga a starsi seco stanotte, poi che il vecchio va
alla stufa da una cortigiana. La crede che no[n] tornerá peró manda per costei non
volendo dormir sola, per passar quei fastidi, quei pizzicori, et q[ue]lla malinconia.
Vincenzo.
Almanco togliessi ella me in quello scambio, di gratia piglia qua[n]ti danari tu vuoi, eccoti
la borsa; et portamegli una lettera.
Caterina.
No[n] vo di portante altrime[n]ti. U. ú, e si lieva la luna, io vo via, a rivederci.
Vincenzo.
Ascolta, ascolta.~ poi che tu no[n] vuoi ascoltare, va in mal’hora. E si suol dire che i proverbi son
veri; al primo colpo no[n] casca l’albero. a tre fazzoletti costei é mia certo. E si dice ancora
fico basso, et fantesca d’hosteria, palpeggiando si matura. Q[ua]n[do] un fico é basso, ogni uno lo
tasta s’egli é mézzo, tanto che in poche spremiture e gocciola, et cosi la fante di cucina,
hoggi viene un forestieri, et la tasta da un fianco, domani ve ne capita un’altro, et la –
stringe da un braccio: chi gli tocca, la mano; et chi gli mette le dita sotto, il me[n]to; onde in
poche settimane, ell’é cottoia. Costei poche spremiture pare a me, la ridurrebbono.
Ma sará meglio che io vadia a far altro; che Laura mia no[n] sono io per vedere altrime[n]ti si é notte.
Ecco il vecchio, che maladetta sia la sorte: guarda chi gode si bel giglio. hor su io daró una
volta, poi che quest’uccellaccio va in muda; et poi ritorneró; chi sa.~
SCENA IIII. Niccolo, Bigio, et Stufaiuolo.
Niccoló.
Cenerai Laura, et poi vanne al letto, et aspettami.
Bigio.
Fatto l'olio: so che l’havrá un bello aspettare.
Niccolo.
Bigio, o Bigio .~ tu no[n] odi, tu no[n] rispondi, se tu sordo Bigio.~
Bigio.
Io no[n] sono altrime[n]ti sordo, messer nó.
Niccolo.
Per che no[n] rispondi tu q[ua]n[do] io ti chiamo.~
Bigio.
Dove havete voi trovato che si chiami mai uno che sia sugliocchi altrui.~ e si chiamano
coloro che son discosto: se voi vedete che io son qui, che accade gridar Bigio Bigio, no[n] sapete
voi dire il bisogno v[ost]ro; fa cosi; et va cola.~ senza farmi tanto rispondere messere, messere.~13La battuta è analoga a La Zucca, IVc 53 7, dove viene attribuita al servitore del Doni.
Niccolo.
De vedi cosa, sto io con esso teco.~ Sta pure a vedere, che tu vorrai esser me, et che io sia te.~
Bigio.
State pure avedere; se voi no[n] istate a casa che voi sarete un’altro, et un’altro sará voi.
Niccolo.
In che modo.~
Niccolo.
To questa chiave, et serra ben ben quell’uscio, Zufoli poi, chi vuol Zufolare:~

[f. 7v]
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Bigio.
Ecco fatto togliete.
Niccolo.
Dimenasi, o vien fuori il buncinello.~
Bigio.
Ben be: se gli é serrato, come puó egli uscire fuori. dove siate voi stasera: ó ó ó.
Niccolo.
Conficcasti tú tutte le finestre, come io ti dissi.~
Bigio.
Messer si.~
Niccolo.
Quella del tetto.~
Bigio.
Messer si.~
Niccolo.
Quella della volta.~
Bigio.
Messer si.
Niccolo.
Quella del granaio.~
Bigio.
Messersi, messer si: quella del pollaio, quella di cucina, quella della dispensa, quella della stalla
quella della colonbaia, et quella del palco delle mele: quando alla prima ho detto tutte che
accade far queste Tanie.16'Tanìe': litanìe, storie (GDLI).
Niccolo.
S'io no[n] havessi il bisogno che io ho de fatti tua: ti ficcherei hor hora questo stocco ne fianchi. Guarda
chi mi vuole insegnare: Che palandra hai tu da dottore, su la spalla, ripiegata.~ che ne vuoi tu fare.~
Bigio.
Voglio adoprarla; la discretione é madre de gli asini messere. Voi l’altre notti andate alle
signore, et io fo mula di medico,17'Fare mula di medico': attendere pazientemente i comodi altrui, perdere tempo in attesa di qualcuno (GDLI). egli é questo freddo, io no[n] voglio intirizzarmi.
Niccolo.
Tu hai ragione; mettitela un poco indosso, et va la due passi. ah.~ ah.~ che cavar te la possino
i becchini, tu sei il bel pazzo: So che io sto fresco a famiglio balordo.
Bigio.
Voi, e io sian due, se tre altri ci volessino far correre; io son’ senz’arme.
Niccolo.
O vedi bravo; camina poltrone, et picchia allo Stufaiuolo, et spacciati.
Bigio.
Tic, toc; o maestro, ou, o lá: egli é qui il ma[gnifi]co signore, che si vuol fare apiccare due –
cornetti su l’osso del cervello. aprite.
Niccolo.
Che cosa gli hai tu detto.~
Bigio.
Che volete farvi bello; apri tosto.
Bigio.
E apri, che noi la voglian fare stanotte.
Niccolo.
Maestro, e bisogna servire: voi sapete che un par mio no[n] puó cosi disagiarsi ogni sera,
aprite et pagatevi.
Stufaiuolo.
La stufa é raffreddata.
Niccolo.
Scalderala, no[n] piu novelle, bestia.
Stufaiuolo.
La magnificenza v[ost]ra, stará a disagio un pezzo.
Bigio.
Che importa, pur ch’egli stia al caldo, non gli da noia, et io dormiró nello spogliatoio.
Niccolo
Senza lingua, gaglioffo.
Stufaiuolo.
Voi sete padrone, peró no[n] posso dir di nó; pignete la porta, et venite dentro.
[f. 8r]
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Bigio.
Dice bene l’avverbio,19Proverbio, probabilmente per catafora (cf. Zucca, I p 1 4). che a cuocere bene un huovo fresco, fare il letto a un cane, inse –
gnare a un fiorentino, et servire un Vinitiano, sono le piu difficil cose che si faccino, et
se voi no[n] me lo credete dimandatene quelle donne colá colá: che vanno, so ben’io.
SCENA V. Caterina, et Taddea.
Taddea.
Se ben si va dinotte, noi siamo a Vinegia et é per carnesciale.
Caterina.
L’uscio, é diacciato: il corbo ha preso il volo, andiamo pure per l’uscio di dietro, dove io uscì.
Tadea.
So che la casa sta frescha, come s’usono tutte due l’entrate, a che fine hai tu aperto cotesta.~
Caterina.
Bisogna accomodarsi a tempi cara madonna; il vecchio vuol’ la porta dinanzi a suo
dimino [sic] , et vuol vedere, et sapere chi vá, et chi viene: noi che habbiamo qualche vogliuzza
di comperare delle cosette, no[n] volete voi, che ce la possiamo cavare.~ la sarebbe bella
che sempre havessimo a stare a bocca secca.
Tadea.
Dimmi quando e tornassi, et mi trovassi incasa, no[n] mi ci havendo veduta venire.~
Caterina.
Ne me ancora vidde uscire, et no[n] pensai che mi trovassi fuori: q[ua]n[do] sarete dentro penserete
a cotesto, no[n] mancherá mai di fare come ho fatto io.
Tadea.
Cento, et mille volte sono stata in questa casa, et mai usai questa via.
Caterina.
Ell’é una comoditá non conosciuta, et vi potrete usandola dar qualche spasso; senza esser
vergognata, che i vicini vi stieno a sindacare, o a vedervi.
Tadea.
Hor’ entra, co[n] buona ventura, tu sai l’usanza della porta: peró va ina[n]zi.

DEL PRIMO ATTO
FINE

[f. 8v]
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ATTO
SECONDO

SCENA PRIMA VINCENZO SOLO.
Vince[n]zo
La sciocca opinione del vulgo, mi ha tenuto un pensiero nella mente, Che Cupido
sia Dio, che abruci, saetti, et infiammi il cuore di noi miseri amanti. O sciocco =
volgo accecato nell’ignoranza. Per dirlo in una parola. Io credo che Amore sia una
infirmitá di natura, che ciascuno ha nell’ossa. Una certa spetie sottile di doglia, me =
scolata co[n] un pensiero dilettevole, che no[n] si stima p[er] malattia. Apicasi questa bestiale
infirmitá p[er] piu vie, et pigliasi da ciascuno, et da tutti i tempi. No[n] é, per dire il vero –
male che paragoni questo, p[er] che é intrecciato co[n] la natura, et non viene da humori.
Egli é un sottilissimo fuoco che tal volta si porta nella parola: p[er] che nel raccontare
Le bellezze d’una donna, ancora che la sia di lontano, tu te ne guasti. Dio ne =
guardi ciascuno. Che cosa no[n] ha fatto l’huomo infuriato da questa febbre.~ et la –
donna.~ distrutto cittá, paesi, et regni: amazzato amici, strangolato rivali, tagliato
a pezzi parenti, et lor medesimi si sono apiccati. Per Amore, am.~ lieva la ga[m]ba:20'lieva la gamba': Dio ce ne liberi (GDLI)
La madre no[n] si cura del figliuolo; la moglie no[n] pensa al marito, ne ’l marito alla moglie.
Io co[n]cludo che Amore é un male senza rimedio: et io lo provo. No[n] so, se mi par di –
vedere in calze et giubbone fuor della stufa, il possessore di Laura mia vita. Egli é
certo: poi che mi ha dato due volte ne piedi, vo seguir la traccia; forse che Amore mosso
a pietá (se pure é vero che sia Dio) de miei torme[n]ti dará mano, a sollevarmi da ta[n]to dolore.
SCENA II, Niccolo, Bigio, Stufaiuolo, et Vincenzo.
Niccolo.
E no[n] é la piu dura cosa che lo aspettare co[n] disagio, massimame[n]te q[ua]n[do], vi interviene,
amorazzi, et quel che importa piu, la chiave della conclusione.
Bigio.
Alla mag[nificen]za V[ostra] no[n] doverrebbe dar molta noia, un hora di piu, a ogni modo, qua[n]to piu state
meglio é p[er] voi, p[er] che la notte vi parrá piu corta.
Niccolo.
Tu entri sempre, in qualche cetera che no[n] ti tocca. Io debbo lavorare a giornate bestia.
Stufaiuolo.
La V[ost]ra mag[nificen]za potrá andare a cominciare a spogliarsi; che io saró in ordine, in un tratto; so =
[f. 9r]
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che dovete penare un pezzo, tante cose havete da sdilacciare.
Niccolo.
Si p[er] San Piero, in un tratto son bello e ignudo, tu lo sai male, io non ho brachieri,21Brachiere: sospensorio, fascia di cuoio per sostenere l'ernia intestinale o inguinale (GDLI). come
questi altri vecchi bavosi. havrai cura Bigio alla cassa de panni, p[er] amor di quella
borsa, tu m’intendi.
Bigio.
Io mi vi adormenteró sopra p[er] no[n] la perdere, andate pure senza pensiero, a pulirvi.
Vincenzo.
Che si che la sorte mi vorrá aiutare all’improviso, et farmi succedere in modo inconsi –
deratame[n]te, che mille savi pensieri, no[n] m’hanno voluto mostrare. Lasciami pensare
un poco: Io ho trovato l’inchiodatura.22Trovare l'inchiodatura: trovare il modo giusto per fare qualcosa (GDLI) La mi verrá fatta certo. O lá, o la, padron
Gottardo; Stufaiuolo o lá.~
Stufaiuolo.
Che vi piace signore.
Vincenzo.
Potrei io lavarmi stasera.~
Stufaiuolo.
Io ho un mag[nifi]co: quando lo havró servito, serviró la S[ignoria] V[ostra] et la servirei inanzi, ma voi
sapete come son fatti: state cosi un poco, come pare alla S[ignoria] V[ostra] et poi venite, et spogliatevi
venitevene dentro alla sproveduta, Io saró la intorno al ge[n]tilhuomo, et co[n] qualche
trattenime[n]to, dando un colpo sul cerchio, et uno su la botte, laveró ancora la S[ignoria] V[ostra] ta[n]to
che a un’hora medesima, finiró l’uno et l’altro.
Vincenzo.
Ordina al tuo garzone che no[n] lasci venir nessuno, p[er] che voglio esser solo, et pagati
Stufaiuolo.
Cosi faró
Vincenzo.
In effetto come il bisogno stringe, il cervello rivolta mille modi p[er] servire la necessitá.
Ho pensato uno inganno (o sorte, questa volta, et poi no[n] piu) pur che la mi riesca.
Io credo che in questa cittá, che é tanto popolata di varie nationi, ci accaggino di belle
novelle. Io ne só quelle quattro, et no[n] son piu che due anni che il mio mercatante mí –
lascia star qua fermo. Chi ci ha daspendere gode di buon bocconi; ma ce ne sono ancora
de gli strangolatoi; questo di Laura é uno. Gran cosa, che no[n] ci sia mai stata ruffiana si
suffitiente che bastato gli sia l’animo d’afrontare quel Torrione, tutte dicono che la rocca
é ispugnabile [sic] ; anzi piu, che l’assedio no[n] la farebbe arendere. Pure le son certe cose, che –
Dio sa come l’andasse, a quelle strette, ci sono di mali passi. Il letto, il buio, la comoditá;
la fragilitá, i danari, la fede del secreto; fanno gran violenza. Io no[n] vo dire come molti
p[er] no[n] far carico alle buone, che le sien tutte d’una lana, p[er] che l’esperienza mi fa credere
al contrario. Egli é meglio che io vadi dentro inanzi che coloro s’appressino, che no[n] si vo –
lessero stufare ancor loro. et veder sel mio pensiero debbe havere effetto, e trar sul libro
della sorte improvista, co[n] i dadi falsi dello inganno; et chiarirmi in effetto se a Vinegia
ne posso far io, ancora una; o savia, o pazza che la mi riesca; co[n] questa passione
et co[n] questo batticuore, no[n] ci é ordine a vivere.
[f. 9v]
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SCENA III. Cesare, Corrieri, et Druda:~
Corrieri
Chi ha patienza nelle tribolationi, il piu delle volte viene aiutato. Suo Maestá vi ri =
mette, et siate co[n] i vostri signori della Cittá, giustificato benissimo.
Cesare.
La mia in[n]ocenza m’ha fatto favore, Iddio no[n] abandona mai chi spera nella sua bo[n]tá,
Questa é la mia habitatione, a canto a questa stufa. Quá é la porta principale, la –
padrona che tiene a camere, si chiama Druda Txo [?] desca dello Stufaiuolo. Venite p[er] le
lettere domattina, a che hora voi volete, o io ve le porteró a Rialto, et se vi piace allog –
giar meco potete star qua[n]to vi torna bene. Questa é la mancia della buona nuova
godi questi scudi p[er] amor mio.
Corrieri.
Baciovi la cortese mano.
Cesare.
Va co[n] Dio. O qua[n]to é fallace il mondo, o qua[n]to é bene ogni cosa contrapesata, Stolto chi si –
fida nelle sue promesse. No[n] é si tosto distrutto in bocca il Zucchero, che l’apetito ti fa venire
un’amaro desiderio di qualc[he] altra cosa. La nuova del ritornare alla patria, é dolcissima
ma il lasciar Laura, é un fiele crudelissimo; o Sorte, O Destino, che crudeltá son queste.~
Druda.
Signor Cesare che fate voi costaggiu di fuori al freddo, venite qui su l’uscio; Io vi ricordo
che voi siate inanzi co[n] gli anni.
Cesare.
Travagliava la mia me[n]te. Ecco le lettere della mia i[n]nocenza, che il ritorno della patria
liberame[n]te m’é concesso.
Druda.
O qua[n]ti falsi concetti si fanno hoggi una gran parte de signori, et principi nella me[n]te
cose da no[n] se ne maravigliar molto, poi che tante esperienze di giorno in giorno se ne
son’ vedute. Le cose de gli stati son molto tenere, et si vede tal moscha che pare uno elefa[n]te.
Cesare.
E principi son’ netti, e i signori della republica sinceri di cuore: ma gli huomini son ben
pessimi i quali bene spesso comodame[n]te hanno le loro orecchie; nelle quali scolpiscono
la malitia. Quella Città e beata, et beato quel signore, che ha ministri giusti, et male
p[er] quelle dove vi regnano i vitiosi. Q[ua]nti cittadini di mala me[n]te che governano, aspettano
l’occasione da poter profondare un’altro cittadino, o dargli una ferita su l’honore.~
et su la roba: et se bene é á torto, fatto che egli é bisogna che sia diritto; ne di questi –
casi bestiali, o accidenti del mondo, se ne puó assegnare le ragioni, p[er] che la veritá stá
di sopra: ma lasciamo questa tragedia, dove andate voi cosi bella.~
Druda.
Faceva pensiero di mo[n]tare in barca, et due hore passare il tempo attorno, a ogni modo
tra le pelli, et la comoditá della gondola, no[n] si sente in si poco spatio il freddo: et non –
ad altro fine, se no[n] p[er] ischivare un fastidioso mag[nifi]co vecchio: il quale tre giorni sono mi tor –
me[n]ta, et io no[n] attendo piu a baie come sapete: p[er] che voglio poter’ co[m]parire fra le donne daBene.
Cesare.
Et é ge[n]tilhuomo.~
Druda.
Si credo io, anzi é certo. Io ho qui una sua lettera amorosa: et p[er] importunitá ho detto al suo fa[n]te =
[f. 10r]
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di si ma sará nó: Eccovela leggetela di gr[ati]a, poi che q[uest]o Lume di Luna vi serve si bene
Lettera. Al Christallino specchietto della mia effigie
la signora Druda Zucchero rosato del mio stomaco mag[nifi]co
Reverendissima stella, come sapete la S[ignoria] V[ostra] Che la mia mag[nificen]za ha discorso in materia del mio
amore et concluso sopra le prove fatte a diverse signore venute di nuovo nella nostra Città
domina domina[n]tium, i favori ch’io posso co[n] ogni tacca di persone, et panni oro: peró che vale
assai i pari miei mag[nifi]ci fu del quondam Clarissimo M[esser] Bernardo. Hora a gli ufitij delle
pompe procuro:23Il magistrato alle Pompe si occupava di sovraintendere al rispetto delle leggi suntuarie. et hora a signori dinotte disputo.24I Signori di Notte erano la principale magistratura criminale delle Venezia dogale. Devono il loro nome al fatto che inizialmente la loro giurisdizione si limitava a crimini commessi di notte; col tempo li reati di loro competenza si allargarono molto, il che contribuì all'assunzione dei Signori di Notte a un ruolo centrale nella magistratura veneziana. Desidero adunque esseguire stasera da quat =
tro hore in la, tanto mio amore strenuo. Cedino le vostre fulguree beltadi invitte, alla ser =
vitú del vostro schiavo infangao,25L'espressione è curiosa e potrebbe avere connotazione dialettale (l'uscita -ao per -ATUS è tipica di alcune parti della laguna veneta). Potrebbe tuttavia trattarsi di una semplice svista dell'autore-copista. et tutto crocifisso: la onde co[n] questo aureo san marco;
la mag[nificen]za mia, vi bacia la Zecchina mano.
Il piú infocato ama[n]te: che vi toccasse, o scaldasse
mai le carni:~
Cesare.
La S[ignoria] V[ostra] fa torto alla sapienza di questo magnifico. ma p[er] che promettergli.~
Druda.
Per fastidio; ma che importa.~
Cesare.
Ancora che alcuni sieno di cervello, manco qualche carattere; bisogna rispettargli, che fu
quello un Zecchino, am.~
Druda.
Si signore, ma lo rimandai indietro p[er] il famiglio.
Cesare.
Dio sa se lo ha portato.
Druda.
Domin fallo.
Cesare.
Sarebbe il primo, questa cittá é piena di famigli marihuoli, et se no[n] fossero i buoni ordini
sarebbe un baccano, dove pare un paradiso. Qua[n]te buone leggi ci sono.~ et comoditá rare.
piu che in citta d’Italia. Non é questa una bella cosa, che un pari mio possi andar solo.~
et sconosciuto, et aco[m]pagnato a suo piacere.~ Un Duca, un prelato, et un signore, ha
uno spasso estremo di questa incognita familiaritá. Ma torniamo al magnifico la S[ignoria] V[ostra] si –
riduca a casa, p[er] che se voi no[n] vorrete dargli fatti.~ daretegli parole, et no[n] beffate
cosi, p[er] nulla no[n] lo fate.
Druda.
Poi che ho compagnia da ragionare, penseremo qualche rimedio p[er] questa faccenda.
Cesare.
La S[ignoria] V[ostra] vadia.
Druda.
Anzi quella.
Cesare.
Nó signora, tocca a voi; p[er] niente. é andate dentro che colui che é lá dalla Stufa no[n] ci –
vegga far queste cirimonie fuor di proposito la notte.
Druda.
Per no[n] vi tenere a tedio ubidiró.
Cesare.
Bacio la mano alla S[ignoria] V[ostra].
Scena IIII. Vincenzo, solo:~
Ha.~ ha.~ tutti i famigli son famigli alla fine. I danari, et le cia[n]cie che ho dato loro hanno fatto
Che si son trafugati p[er] non so che corte, et inzuccato bene bene,26'Inzuccare': bere vino oltre misura (GDLI). et hora dormono come tassi. se io
posso ordir la tela: spero di farvi ridere. Io vo de[n]tro, p[er] che chi ha tempo; no[n] aspetti Tempo:~

FINE DEL II ATTO.

[f. 10v]
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ATTO TERZO

SCENA PRIMA Maddalena: et Cesare:~
Madalena.
É egli desso.~ si é: apunto venivo signor mio p[er] trovarti.
Cesare.
Con buone nuove.~
Madalena.
Ne nuove, ne vecchie; ne cattive ne buone. noi siamo disperate tutte di casa. La Tad =
dea vedova, Vedova in qua[n]to all’usanza di questa Città; ma il marito era in Aleppe27Venezia aveva aperto un proprio consolato ad Aleppo (Siria), in territorio Ottomano nel 1548, che è probabilmente il periodo in cui la commedia fu scritta (cf. Introduzione); non è escluso quindi che questo possa essere un allusione all'evento. q[ua]n[do]
gli fu dato p[er] man d’uno altro l’anello, et nel venire é affogato. Lei adunque che le pas =
sa il tempo; s’é scoperta co[n] tutti d’essere inamorata d’un guasto di Laura che la muore;
e no[n] se tu quel desso; et cosi dice no[n] havere ne giorno ne notte un hora di riposo. Laura
si ride di costei da un canto: et dall’altro piagne d’essere annegata in un bicchieri d’
acqua co[n] quel vecchio; il quale oltre che le fa cattiva diacitura, ogni settimana e –
va da questa, et da quell’altra Zambracca a vettura. ma noi lo vogliamo stanotte
corre alla stufa, la da te: nella quale sua mag[nificen]za si debbe lavare
Cesare.
Sia in buon’hora, sai tu che io ero uscito fuori p[er] venire da te.~
Madalena.
No[n] altrimenti.
Cesare.
Ecco la patente del n[ost]ro ritorno alla Patria, co[n] le possessioni libere, et ogni n[ost]ro havere.
Madalena.
O Signore sia tu ringratiato sempre, Io ho del continuo sperato nella sua bontá; et ho
fede di ritrovare un giorno, al meno, uno de miei figiuoli.
Cesare.
Eime dolente giá me gli sono scordati.
Madalena.
No[n] giá io: et ho ame[n]te la voglia che ha la Fiammetta sul braccio, i nei delle spalle,
e tutto. et Gianni Batino no[n] ha forse de contrasegni cinque, su la vita.~ no[n] vo se no[n]
quello del cece, sotto la popa manca.
Cesare.
Non pensare alle cose impossibili, guarda piu tosto di farmi consolato.
Madalena.
Sará piu impossibile questo. Ma sta di buona voglia, che io ti voglio vivo; peró fra poco, la
condurró dalla Druda, che la metta in suo scambio a canto al vecchio: siate d’accordo voi
che io ve la lasceró in casa.
[f. 11r]
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Cesare.
O felice a me; p[er] te certamente ravvivo; oime tu mi ritorni l’anima; sará ella cosí.~
Madalena.
Sta di buona voglia, che tu sarai contento, vuoi tu altro.~ ti contenti tu.~ hor vedi se
si trovó mai la piu amorevol’ donna inverso il suo marito.
Cesare.
No[n] posso p[er] l’allegrezza rispondere.
Madalena.
Io vo adunque: risponderami poi, et poi meglio mi rallegreró del n[ost]ro ritorno.
Cesare.
Due fatiche ha l’huomo in questo mondo, che no[n] si considerano, et pur son grandi. Una
che si vede, et l’altra nó: La prima é mantenersi: l’altra il sostentare la sua pazzia.28Lo stesso adagio si ritrova in La Zucca, IVb 49 47.
No[n] bastano i travagli del mondo che mi danno affanno da una parte, che dall’altra, la
pazzia d’amore no[n] mi sia a cuore. E si suol dire che nelle cose averse il ricco si sa =
prosperare, ma in questi mia passati, et presenti travagli, no[n] mi hanno ancora saputo
fare questo servitio: in modo che l’huomo ha da ringratiare piu Dio d’esserci nato savio
che ricco;29Anche questo proverbio si ritrova in La Zucca, IVb 43 32. che se cosi fosse, Io no[n] sarei in questi laberinti. Se io mi sviluppo adesso, mai
piu mi aggiro p[er] si fatte strade. Lasciami andare in casa, a co[n]durre il resto della mia
pazzia a fine. Io odo ridere, pur che qualch’uno no[n] m’habbi sentito: a suo posta egli
va in la; et io in qua.
SCENA SECONDA, Vincenzo; Laura, Madalena, e Druda:~
Vincenzo.
Ah.~ ah.~ so ch’io rido stanotte: pur che no[n] mi tocchi a piagner domani, ogni cosa va bene:
Dal viso infuori no[n] paio io, il mag[nifi]co.~ incambio di stufarmi, io vo veder di coricarmi in
un letto. Come bene ho fatto il furto di questi panni sotto a quel gaglioffo: e dorme si
sodo, che no[n] lo desterebbono le bombarde. Il vecchio, v’é p[er] due hore ancora; egli sta
al caldo, del quale se ne rifá; et é entrato in un cicaleccio de suoi amori lungo lungo.
Lo Stufaiuolo che é forchebene, dice, madesí, e tira il cordovano,30'Tirare il cordovano': burlare, prendere in giro (per una spiegazione approfondita dell'origine dell'espressione cf. La Zucca, IIIc 7 10). et aspettami: et io
in quá; pure ch’io torni a tempo. da rimettere i panni al luogo suo bene stá: Ecco
la chiave, ecco il lanternino da ladri, potró vedere per tutta la casa. Sta io sento sputare,
Dio m’aiuti: no[n] mi fare stentare chiave: la vacca é nostra, dentro de[n]tro.
Laura.
La fante s’é adormentata al fuoco alla prima, e Taddea debbe essere sul buono del
primo sonno: pur che noi giunghiamo la gallina sull’huovo basta.
Madalena.
Il gallo bisogna dire.
Laura.
Egli é peggio che un cappone.
Madalena
Si nel suo pollaio, ma nell’aia de gli altri dove si trova qualc[he] granello straordinario
e riescono un’altra cosa al beccare.
Laura.
Tosto ne vedremo la prova.
Madalena.
Bella cosa questa cittá libera; guarda che nessuno cerchi, se noi sian masti o femine.~
ma noi paiamo due signori.
Laura.
Insegnatemi come ho dire alla Cortigiana.
[f. 11v]
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Madalena.
Lascia pur dire a me.
Laura.
Andate dunque inanzi, voi che sapete la casa.
Madalena.
Eccoci a casa. Tic, toc.
Druda.
Chi é lá.~
Madalena.
Son due forestieri che cercano camere locande.
Druda.
Adesso vengo.
Laura.
Credete voi, che sia stufato ancora.~ o s’io lo trovassi nel letto co[n] essa, vecchio pazzo.
Madalena.
Ricordati, se quell’amico ti viene attorno di dire, io son Fiammetta, et mostragli, ció –
che io ti ho detto:
Druda.
Venite dentro.
Madalena.
Tosto, ch’io sento piagnere dalla banda di qua: dentro. odi come ei carogna forte.
SCENA III Chaterina, et Bigio.
Bigio.
Um.~ Um.~ um. Io son rovinato, e no[n] so dove mi andare, um.~ um.~
Caterina.
La vesta del messere, e su la tavola, la sua camera e serrata di dentro, cosa che
mai si usó, Io sono stata a orecchiare a luscio, et m’é parso di sentire, che la
lettiera si scommette tutta, del resto la casa é netta di brigate come un bacino da
barbieri;
Bigio.
O sciagurato a me; io voglio andare a casa amazzarmi. um.~ um.~
Caterina.
Dio sa dove son l’altre donne; va rinvergale tu p[er] questa terra. Io voglio ancora io
andare a cercar’ del Bigio alla stufa: ma Eccolo che ne vien piangendo, de vedi figura
o vedi fantocciaccio in giornea.
Bigio.
Caterina, corri su p[er] un coltello, et sgozzami, che io son’ morto.
Caterina.
Per che.~ Che cosa é stata.~
Bigio.
O Dio, la vesta del messeroe; la berretta il brachiere, la Chiave, um.~ um.~ va p[er] il coltello.
Caterina.
Che vesta, che chiave: la vesta e su la berretta, et la tavola su la vesta; la chiave ha aperto l’uscio, se tu briaco no[n] lo vedi.~
Bigio.
Sogno io, o dormo.~
Caterina.
Tu mi pari l’abbrivida, che fai tu di cotesto catelano attorno.
Bigio.
Come ha fatto il messere a volare nel letto, s’io so che si stufa.~
Caterina.
Chi é adunque in letto.~
Bigio.
Chi v’é, tu che se stata in casa.~
Caterina.
Io ho dormito al fuoco.
Bigio.
Et io ho sonniferato cosi un poco poco sopra una cassa.
Caterina.
E d’un bel sonniferare, poi che messer t’ha fatto la beffa de panni, che tu no[n] l’hai sentito.
[f. 12r]
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Caterina.
Ah.~ ah.~ e egli nella Stufa da dovero.
Bigio.
Credo di si: lasciami veder la vesta prima, et poi ti diro, s’egli é vero o nó:~
Caterina.
Sai tu cioche io voglio, che noi facciamo.~
Bigio.
Che.~
Caterina.
Andiancene di la in camera terrena, et rassettereno un poco quelle masseritie, et q[uei] letti,
in tanto torneranno le donne.
Bigio.
Che le sono ite di notte fuori.~ messere sta fresco.
Caterina.
Tu vedi ogni un va carnescialando, vedi anchor la giú un’huomo, e una donna che debbono.
Bigio.
Lasciami veder prima se la vesta é di sopra, et poi, faren’ cioc[he] tu vuoi, va sú.
Caterina.
Si ben mio, anima mia.
SCENA IIII. Druda, et Maddalena:~
Druda.
La compassione del povero aflitto, et mezzo vivo ge[n]tilhuomo, mi ha fatto serrar’ Laura
in camera, co[n] dire che aspetti il vecchio, e v’andrá il v[ost]ro Cesare.
Madalena.
Ah.~ ah.~ ah.~
Druda.
Voi ridete; se mi fosse stato marito, come é a voi no[n] lo comportava mai, morto a suo posta.
Madalena.
Ho ben fatto uno incanto, basta.
Druda.
Basta am.~ incanti mi piacque, voi havete un buono stomaco, come andrá la cosa.~
Madalena.
Benissimo, state a vederne la riuscita.
Druda.
Sia con Dio, andatevene a Casa, et io andró a trattenere il vecchio, et di tutto lo sco[m]piglio
lascio il carico a voi.
Madalena.
Si, si: buona notte. Io ho quasi mezzo paura ad andar sola, cosi travestita da huomo.
Che vuol dir’ quest’uscio aperto.~ Che sará mai, il vecchio é pur nella trappola. Dio voglia
che quel famiglio porco, et la n[ost]ra porchetta no[n] habbin fatto qualc[he] maladitione. Semp[re] ci
nasce qualche matassa da sviluppare. Intanto io entreró di qui: et serreró l’uscio, chi
vorrá poi venire in casa; mi fará motto:~

DEL TERZO ATTO IL FINE

[f. 12v]
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA. VINCENZO, E MADALENA:~
Madalena.
Tutte le disgratie quando le cominciano, soglion’ venire a un’otta, et le gratie a una
a una: ma questa volta le felicitá, mi son venute a un tratto tutte.
Vincenzo.
Chi direbbe mai che la sorte m’havesse fatto tanto favore.~ et in che modo. Sono ito in
una Stufa a diventar’ (p[er] amor) ladro: e truffatore, et in una patria lontana dalla mia,
tante centinaia di miglia; a ristio di capitar male; travestitomi, aperto porte, cercato case
le son faccende ch’apena si credono.
Madalena.
E io ci venni, et mi posi come p[er] ischiava in nuove contrade, et fra gente in altra maniera
nutrite, et alla fine mi son condotta a condurre la povera figliuola, a cercare i difetti del
marito. Ma questi discorsi no[n] son peró d’allungargli piu. Io andró a Laura: della Taddea
l’é fatta: come io torno s’acomoderannno tutte le differenze. vattene al letto.
Vincenzo.
& la vi aspetto adunq[ue].
SCENA II. Madalena, & Druda.
Druda.
V’aspettavo al passo, vedendovi venire in quá.
Madalena.
Come la fa Laura.~
Druda.
Ah.~ ah.~ so che il signore ha avuto il mele, & le mosche.
Madalena.
Oime p[er] che, ecci nulla di rotto.~
Druda.
Nulla insino a hora.
Madalena.
Si debbe pure esser contentato a modo suo.
Druda.
Il v[ost]ro incanto credo che sia stato da dovero. E no[n] so dire altro se no[n] che la gli disse no[n]
so che pian piano, poi volle il lume, et mostrogli le braccia, et le spalle, e ’l petto, tanto
che egli entró in un pianto dirotto che mai ha fatto altro che baciarla, et chiamarla figliuola.
et piangere dirottame[n]te. O la voi piagnete ancora voi: no[n] habbiate dubio nessuno che no[n] ha
fatto cosa alcuna.
Madalena.
Piango, cara sorella d’allegrezza.
Druda.
Io restai stupida anch’io; et egli mi pare impazzato.
Madalena.
O che bello accidente: andiamo dentro, che voi udirete cose nuove: et Laura si ha da riempire
[f. 13r]
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anch’ella d’un maggior diletto, et voi, e tutti. hor ditemi un poco che fu di messer vecchio.~
Druda.
Lo Stufaiuolo, gli mostró la scala segreta, che viene in casa, egli picchió un pezzo;
bravó, et pregó: ma nulla gli valse, ne fu di giovame[n]to. Credo che si gettasse vinto dal
sonno sul lettuccio dello stufaiuolo a dormire. Uditelo che grida a corr’huomo la dalla
stufa. E vien fuori ge[n]te, entriamo, in casa noi.
SCENA III, Niccoló, et Stufaiuolo.
Niccolo.
O ribaldi, marihuoli, asassini, traditori, a questo modo. poltrona Tedesca gaglioffa, a un
mio pari, si em.~ a signori dinotte criminali; Truffatori, cani; A un ge[n]tilhuomo am.~
Si che oltre al rubarmi, e asassinarmi, voi m’havete amazzato il mio Bigio. Io ti vo fare
impiccare stradaiuolo, no[n] istufaiuolo. Lascia lascia che io mi vadi a rivestire, vedrai se
io ti gastigheró. Vinegia no[n] é miga32La sonorizzazione della velare intervocalica (miga per mica) è tratto tipico del veneziano, e una delle poche caratterizzazioni linguistiche dei personaggi in senso settentrionale. il bosco di baccano,33Il Bosco di Baccano (oggi Valle di Baccano) è un'area boscosa situata a est del lago di Bracciano, attraversato dalla via Cassia e famoso dal Medioevo in poi per essere infestata dai ladri. o le mo[n]tagne dove venne tuo padre
di Tedescheria: aspetta pure.
Stufaiuolo.
Mag[nifi]co messere. Io sono huomo da bene, et che sia il vero, Ecco che il v[ost]ro famiglio, nel
truffarvi i panni, et fuggirsi gli é caduta la borsa co[n] la cintola, et io ve l’ho co[n]servata
o l’é dura i danari ci debbono esser dentro confitti.
Niccolo.
Tu ne me[n]ti p[er] la gola, che la borsa l’ho quá, et sempre l’ho tenuta nelle mutande: anzi
havete amazzato il poveretto del famiglio. o povero Bigio, almanco havessi tu potuto dir
tuo colpa, dell’havermi fatto arrovellare, et biestemmare.
Stufaiuolo.
Questa borsa, fará in giuditio testimonianza della mia inocenza.
Niccolo.
Va pure alla malhora ribaldo.
Stufaiuolo.
Io no[n] so tante cose, voi ne portate un saio di velluto, una berretta co[n] una medaglia d’oro,
un pennacchio nuovo di trinca, et una spada che val cento, ve cento;34Il passo non è chiaro, forse semplice dittografia. et poi cento mozzanighi,
per una vesta, et Dio sa come l’era.
Niccolo.
Che si che io ti do cento infilzate co[n] questo stocco.~
Niccolo.
Am, forfante, se tu no[n] serravi, io ti insegnavo dirmi ladro. lasciami andare a casa. O c[he] ribaldi
parti egli che p[er] una volta io sia stufato. Oime, la saracinesca della mia porta é aperta: La
mi pare tutta sforacchiata. Tic, tac, Toc.~ ta ta ta tac: Son’ eglin morti costoro. Tic. tac. toc.
L’é pur la casa mia, s’io no[n] dormo; Questa sarebbe bella ch’io sognassi: truffato, rubato, asassinato,
spogliato, et peggio fuor di casa: Io camino pure, io debbo pure esser desto Ou, Ou, tic, tac,
Laura, Madalena, Caterina, forse ci sará dentro il famiglio, et messosi adormire, et a quest
hotta quei di sopra lascerebbono piu tosto la casa rovinare che disagiarsi. Credendo che io hab –
bia la Chiave. Il poltronaccio, q[ua]n[do] si ficca il capo in seno, e pare un sasso si dorme sodo.
E si: e’ sará morto. Sará meglio che io vadia p[er] un magnano, et faccimi aprire, altrime[n]ti
[f. 13v]
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no[n] ci veggo grascia di andar dentro. tanto é de cattivi partiti bisogna pigliare il migliore.
Vedi a quello che é condotta la mia magnificenza. ma inanzi ch’io vadia, voglio tastare
se l’uscio di dietro fussi mai aperto: et poi faró la via di lá:
SCENA IIII. Bigio: et Catherina.
Bigio.
Chi domine era quello che voleva rovinar la casa, et la porta, hai tu udito Caterina.~
Caterina.
Che si che noi reditiamo questa casa.~ La Camera é chiusa, et la vesta di messere si stá
su la tavola dove ell’era: vogliamo noi andare su qualche ballo in maschera: tu vedi se
altro no[n] ci accade, noi siamo padroni, che ogni uno s’é perduto.
Bigio.
Con che ci travestiremo noi.~
Caterina.
Con la vesta di messere io: e tu co[n] miei panni.
Bigio.
Andiamo che domin sará mai.
Caterina.
Ecco ch’io vo p[er] essa.
Bigio.
Stavo a pensare fra me, cio che si fará di si gran casa.~ Io la voglio se la mi resta affittare
se la Caterina stará forte peró.
Caterina.
To, metti sú, e daremo una volta su balli.
Bigio.
Et andremo da poi a vedere se messere é alla stufa. Socchiudi l’uscio (se tornassi p[er] sorte) a –
ogni modo, no[n] sara veduto aperto.
Caterina.
A Lucca ti viddi, s’io mi metto a ballare, o che salti, guarda caprihuola che é questa.
Bigio.
Rimettiti la vesta pazzerella, et aiutami aconciare questa tua bene indosso. Dove hai tu
tolte coteste maschere.~
Caterina.
Di camera, di mo[n]na Maddalena. Io mi rallegro che noi sian padroni di casa, sará meglio che noi
ci togghiamo, marito et moglie.
Bigio.
Senza dote non faró io cotesta pazzia.
Caterina.
Mancherá la dota. No[n] ho io un forno che é mio.~ et un monticello nella villa cava presso
a Poppi co[n] un boschetto intorno intorno.
Bigio.
Tu hai una rendita d’un podere.~
Caterina.
A lo tu a sapere hora; co[n] un horto, apiccato a quello, con fichi, et nespole, et altri frutti
che sono quasi i[n]salvatichiti, p[er] non havere un’hortolano che ci attenda, gagliardo di buon –
nerbo, a modo mio; o frutterebbe bene.
Bigio.
Seccosi é: io ti torró, et lavoreró a mano cioche vi é, et annesteró quei frutti che dive[n]teranno
dimestichi, et saporiti.
Caterina.
Se tu provederai qualche marza rigogliosa, la fará una prova grande; p[er] ch’egli é terreno
smosso, soffice soffice, et p[er] tal segnale vi fanno naturalmente i fichi lardegli tanto lunghi.
Bigio.
Vacche io son contento, di far cioche tu vuoi. Volta volta di quá che la giu é tanta brigata c[he]
debbe essere il Bargello; volta Caterina volta.
[f. 14r]
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Caterina.
Anzi nó, che son gentilhuomini; aspettiangli, et andremo tutti in un mazzo come gli –
stornegli. mettianci le maschere, et fermianci.
Scena V Laura, Cesare, Druda, Madalena, Caterina, et Bigio:~
Druda.
Si lame[n]tano poi i padri, q[ua]n[do] noi altre donne facciamo figliuoli co[n] qualche segno
le voglie servono pure a qualche cosa.
Cesare.
Dal viso in fuori, no[n] mi son mai dispiaciuti.
Madalena.
E io sono stata tanto in casa, inanzi che gne ne vedessi.~ pure la si amaló, et nel gover =
narla in letto la riconobbi a quella macchia grande su le spalle, et me ne certifichai co[n] il
resto, et co[n] dimandargli, se la si ricordava, d’essere stata menata via co[n] suo fratello.
Laura.
Et io vi seppi dire ogni cosa.
Madalena.
Si: et eri pur piccina.
Druda.
E io che me ne andava presa alle grida; q[ua]n[do] la menavi come alla beccheria.~ voi siate
una sagace donna; et voi m[esser] Cesare che vi ha tenuto su la corda tanto.~
Cesare.
All’amore che io portava a costei mi pareva gran cosa, che no[n] ci fosse un sopranaturale
influsso.
Laura.
Andianne ch’egli ci é cento cose da fare, et da dire ce ne sarebbono mille. O, ó voi non
vedete la m[esser] Niccoló, p[er] la mia fede ch’egli ha seco una femina: egli ci ha veduto. Questa
cosa fara p[er] noi.
Madalena.
La vesta era pure in casa, come é possibile che sia entrato dentro, Io serrai pur bene.
ci sará di nuovo certo: finiranno mai tanti garbugli.~
Druda.
E sono in maschera.
Laura.
Io saró la mal trovata.
Cesare.
Ogni cosa s’aconcerá: lasciate dire a me che cominceró co[n] le brusche, et poi verremo alle
dolcezze, all’amicitie, et pare[n]tadi. Do vecchio senza cervello, é questa hora d’un pari v[ost]ro
d’andare in maschera a torno.~
Druda.
Bella gentilezza, volere sforzarmi la porta.
Cesare.
State fermi dove volete voi trafuggarvi.~ tieni quella femina druda.
Laura.
U. poverina a me: si vede bene ch’io no[n] ho nessuno de mia in questi paesi.
Madalena.
Vedete come gli stá intirizzato.~
Druda.
Sentite come questa vacca sotto la maschera ride.~
Cesare.
Cavatevi le maschere, mostrateci il viso.
Bigio.
Ah.~ ah.~ ah.~ ah.~
Madalena.
Che ti caschi mezzo, il naso bestia, vedete q[uest]a altra pazzerella: e ci impazzerebbe Vergilio.
Cesare.
No[n] piu risa, di gratia lasciategli andare aspasso, e torneranno a casa q[ua]n[do] verrá lor bene.
Bigio.
Insegnatemi il messere: che ne fu egli, dovette morire am.~
[f. 14v]
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Madalena.
E s’é perduto, et noi vogliamo andare a Padova co[n] questo ge[n]tilhuomo. date qua le mie
maschere, e andate Carnescialando, insino che havete sonno: se verrete mai a Padova ci –
rivedremo.36Il riferimento a Padova, qui e altrove, non è altrimenti chiaro. Forse si tratta di un riferimento generico a un'altra città, oppure di un adattamento geografico del proverbio "A Lucca ti vidi", con significato di incredulità, come in Atto IV, Sc. IV. andatevi co[n] dio.
Laura.
Che volete di nuovo far qualche comedia.~ andate piu tosto alla Stufa p[er] messere.
Caterina.
Va la Bigio inqualche luogo andren noi, tantara tantararan tá tá. o c[he] buon tempo.
Madalena.
La porchetta ha lasciato l’uscio aperto; et dovette aprire al famiglio: va tien servidori
et fantesche poi: fidatevi brigate di si fatte generationi.
Cesare.
Io ritornero a casa p[er] non iscomodare Gianni Batino, et ritorneró all’allegrezze poi che ho
pianto tanto: inanzi ch’io pianga di nuovo piu mi riposeró un poco, et la Druda verrá
anch’ella a mutarsi d’habito.
Madalena.
Sará bene, e tornate tosto.
Druda.
Buona notte.
Laura.
Buona notte, et buon anno. Venite subito.

DEL QUARTO ATTO IL FINE.

[f. 15r]
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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA. Niccoló, Magnano, et Maddalena:~
Niccolo.
So che voi dormite sodo, Io ho avuto a rovellarmi intorno a quell'uscio, et
hai penato un hora a vestirti.
Magnano.
I pari n[ost]ri lavorano il di, et la notte; a q[uest]a hora siamo ubriachi nel sonno.
Niccolo.
No[n] piu parole eccoci quá: guarda che nel girare co[n] il grimandello p[er] quella saraci =
nesca, tu no[n] mi rovinassi qualche ingegno.
Magnano.
La mag[nificen]za V[ostra] no[n] dubiti. Io sono usato a tastare altre serrature che la vostra. Io ho –
rimesso insieme tali ri[m]brencioli di toppa, che p[er] volerla aprire co[n] chiavi che no[n] vi si
affacevano, erano tutte strambellate, una cosa brutta da vedere.
Niccolo.
In effetto, la mia é serratura di riguardo, bisogna destrezza.
Magnano.
La mag[nificen]za V[ostra] che no[n] ha il braccio gagliardo, penso che vadia lentame[n]te: peró no[n]
l’havete mai guasta: chi l’ha tocca testé.~
Niccolo.
Che diavol ne so io. la chiave l’haveva il famiglio.
Magnano.
La mag[nificen]za V[ostra] sta fresca poi che fidate la chiave della porta principal di casa al famiglio,
o egli puo mettere, et cavar fuora; la roba q[ua]nto gli piace. Alla padrona no[n] debbe pia –
cer molto.
Niccolo.
Madesi queste nostre gentildonne pigliono tutto in buona parte, et no[n] sono cosi schife
come quelle del tuo paese.
Niccolo.
Messer nó ch’io sappia,
Magnano.
O l’é guasta, o egli é serrato di dentro; aprir no[n] si puo egli.
Niccolo.
Sconficca, rompi, dagli, spezza la porta co[n] quel martello.
Madalena.
Chi rompe l’uscio.~ via ladri: al ladro al ladro.
Niccolo.
Tu fuggi magnano, no[n] fuggire: Diavolo e' , va tienlo tu: Il padron di casa son io no[n] mi conosci.~
Madalena.
Il padrone no[n] veste alla forestiera, tu mi parei un soldato, al ladro correte al ladro.
[f. 15v]
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Niccolo.
Dio mi aiuti, se corre la vicinanza Io sono svergognato. Sará meglio che insino a dí
io mi posi qui incantonato, o insin’ che passi la guardia, che mi conoscerá p[er] gentilhuomo.
SCENA II Stufaiuolo; Caterina et Bigio:~
STU.
Dico ch’egli m’ha havuto d’amazzare. e domattina mi vuol far comandare all’ufitio dinotte.
Caterina.
Quando domattina.~
Stufaiuolo.
Madonna si monna Massara guarda chi mi ha havuto a rovinare. To qui la sua borsa
et va riparaci, porta a casa i panni.
Caterina.
Am’ Bigio se sará di di, come lo fará egli comandar di notte. Che novelle, va la che ci beffa
getta via cotesto brachieri, e andiancene a casa nostra, so che no[n] vi sará nessuno. Io –
voglio che tu ti ritiri dalla parte di dietro, o vorrai quella dinanzi. forse che le stanze
di la piaceranno piu, p[er] esser piu fresche; et starenci da vecchietti, a ogni modo del
padrone no[n] se ne sá nulla: et le donne si vanno co[n] dio. Se noi affittiamo, se ne caverá
un buondato di pigione; la sala é grande, et le camere dentro sono assai.
Bigio.
Tu vuoi dire che una parte che ne affitti ci fará le spese.
Caterina.
Si largame[n]te.
Bigio.
Se tu tenessi a camere locande p[er] tutto no[n] sarebbe meglio.~
Caterina.
Si bene, et guadagnerassi piu ancora.
Bigio.
Pur che tu possi la fatica di reggere alla gente che verrá. E vien tal poltrone ad allog –
giare tal volta, che é fornito d’asineria, no[n] so come tu starai patiente, al suplire di qua
et di la a tanti.
Caterina.
Madesi, Io son gagliarda, e mi basta l’animo di sodisfare a un comune.
Bigio.
Poi che ti contenti cosi, andiano a metter la scritta su la porta, e ’l cerchio.38Il cerchio era uno dei simboli più comuni per locande e mescite.
Caterina.
Qua[n]ti danari, caveremo noi am.~ q[ua]n[do] io havró pieno p[er] tutto: ho io staró co[n]tenta. & me
ne gioverá pure a tirar quelle poste, ch’empiono la mano di que mozzanighi larghi
et marcelli.
Bigio.
La fava, e vi ti pare essere giá.
Caterina.
Si a me: Ma chi é quel bravaccio la in quel cantone , [.~] e viene a noi.
SCENA III. Niccoló, Chaterina, & Bigio.
Niccolo.
Dove vai tu ribaldo co[n] la mia vesta intorno.~ O la tu sei la Caterina, che fai tu de miei pa[n]ni
indosso, dove gli hai tu havuti.~ Quest’altra massara chi é.~ volgi il viso.
Bigio.
Sono il v[ost]ro Bigio caro caro.
Niccolo.
O bestiaccia tu dovesti imbriacarti nella stufa, et mi rubasti i panni.
Bigio.
Perdonatemi che io vi diró tante belle cose.
Niccolo.
Di la veritá se no[n] ch’io ti ficco q[uest]o pugnale in corpo.
Caterina.
U. u; messere ficcatelo inanzi a me, et no[n] amazzate il poveretto, che no[n] ci ha colpa.
[f. 16r]
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voi siate sí bello di velluto, o voi siate bene si ben vestito: voi dovete andare in ufitio
potestá alle Bebe p[er] la signoria,39La Torre alle Bebe, roccaforte presso Chioggia che tradizionalmente marcava il confine dei possedimenti di Venezia e Padova ebbe un Podestà a partire del sec. XII fino al 1607 (Da Mosto, p. 14). o a Bergamo.
Niccolo.
Sta cheta bestia, di su Bigio.
Bigio.
Io dormivo sopra la vesta, et la mi fu tolta, et poi trovai l’uscio aperto, et la camera
su la vesta, che la tavola era serrata, et la berretta.
Caterina.
E io al fuoco adorme[n]tata che v’aspettavo, senti uno spirito folletto la dentro che dime –
nava forte forte la v[ost]ra lettiera dove dorme madonna Laura.
Bigio.
Questa importa ben piu, i panni son qui loro.
Caterina.
Io v’ho pianto p[er] morto, et cerco p[er] tutta questa terra.
Niccolo.
O sciagurato a me, che novella vergognosa sará del fatto mio.~
Caterina.
Bigio di quel che dice lo Stufaiuolo di quel signore.~
Bigio.
No[n] menericordo.
Niccolo.
Che signore.~
Bigio.
No[n] so dir altro, se no[n] che madonna Laura stanotte colá colá, vi cercava, co[n] donna
Maddalena, Uno imbasciadore, una Reina, che so io, il Doge, con la signoria, tutti, tutti,
si ridevono di voi, di me, et della fante.
Caterina.
Tu raccontei la villania.~
Niccolo.
A chi fu detta q[uest]a villania.~ á bestia.
Bigio.
Messere, e vi disse castronaccio, marihuolo, bestia.
Niccolo.
A me.~ am Castronaccio.
Caterina.
Magnifico messer si, a me che haveva la v[ost]ra vesta.
Niccolo.
Voi sete imbriachi, o loro: no[n] si conosce dal viso di questa marihuola al mio.~
Bigio.
Si, ma l’haveva la maschera.
Niccolo.
Mostra qua se la mi somiglia.
Caterina.
La Maddalena, et madonna Laura, l’hanno portate a Padova.
Niccolo.
Adunq[ue] voi sete pur da dovero iti in maschera.~
Caterina.
Messer sí, a cioche voi no[n] fossi conosciuto, e fu bene; p[er] che la mag[nificen]za di madonna q[ua]n[do]
la vi diceva poltrone, puttanieri, Stufaiuolo, vacco, lupa, e asassino, la no[n] disse a voi
ne, a me; p[er] che io no[n] era voi, et la maschera no[n] era me.
Niccolo.
Che ha da fare Padova, co[n] Maddalena; Io no[n] saprei co[n] queste bestie che mi dire o fare.
Il fatto stá che io sono in un viluppo grande, et son’ p[er] cadere da tutti gli squittini, infino
da panni oro: Sia come si voglia, o povero Niccolo. Andate la in casa ch’io voglio di
questa dimenata di lettiera chiarirmene affatto.
Bigio.
Ecco la chiave, o velete [sic] ch’io vadia inanzi.~
Niccolo.
Ficcatela ne gli orecchi hora che gli é stata rotta la serratura.
[f. 16v]
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Caterina.
No[n] vi diss’io messere no[n] ci mettete coteste toppe gentili, che si fanno nelle terre fore =
stiere.~ ve lo dissi pure.
Niccolo.
Si p[er] la fede mia, ell’é una saracinesca genovese d’acciaio bonissima.
Caterina.
Quelle di qua da Vinegia Maschie son migliori, che s’usono hoggi di p[er] tutto, et si puo
aprire da un canto, et dall’altro.
Niccolo.
Tanto se n’era. Io son di fuori: in questo mezzo, et p[er] tutto saró svergognato; andate
la che ’l diavolo ve ne porti.
Caterina.
Voi, no[n] vede [sic] , o messere, messere fermatevi, e son qua dietro, quei Re, quel Doge, et
quella Marchesana.
Niccolo.
Dove sono questi miracoli: e mi paiono ser forestieri. Dio sa cioche sono, hoggi ogni
furfante la sfoggia.
SCENA IIII. Caterina, Niccolo, Cesare, Druda & Bigio.
Cesare.
Ben trovato mag[nifi]co messere.~
Niccolo.
O lá, io no[n] vi conosco, et voi conoscete me. Ben venga chi sete voi.~
Cesare.
Sono, un gentilhuomo Genovese mercatante, e ho da spendere parecchi mila ducati
Bigio.
Il mio padrone non vende nulla, che sono di fede co[m]messi i suoi beni.40Di fede commessi: inalienabili per ipoteca o altra obbligazione.
Niccolo.
Cheto bestiaccia.
Cesare.
Et Maddalena, che é in casa la mag[nificen]za v[ost]ra: é mia consorte, et cara donna.
Caterina.
Voi ne tenete un bel conto, a tenerla p[er] fante l’é ita via, co[n] voi.
Niccolo.
Andate in la famigliacci, canaglia, state cheti.
Cesare.
Noi sconosciutame[n]te fuggimmo della patria; et siamo stati segreti, et nascosti sotto altro –
nome, hora ci conviene palesare; et co[n] quello honore ritornare a Genova, che si co[n] –
viene: havendo giustificato il mondo co[n] l’innocenza mia, et son padre di Laura;
et mi chiamo dirittamente Gregorio Spinola.41La famiglia Spinola è una delle più importante famiglie dogali di Genova.
Niccolo.
Di mia moglie.~
Cesare.
V[ost]ra moglie, é mia figliuola; et Maddalena é suo madre.
Niccolo.
Oime, oime, Io son tutto intenerito, oime; voi siate mio signore, mio padrone, e tutta la
casa, e cioche io ho, é v[ost]ro: et della v[ost]ra donna. O moglie mia cara che allegrezza
havrai tu. Oime, Oime, che dolcezza grande.
Cesare.
Questa é la Sig[no]ra Druda, che ho fatto tor p[er] moglie allo Stufaiuolo: et gli do la dote io
et verranno tutti meco a Genova, dove staranno benissimo. Ell’é q[ue]lla cortigiana v[ost]ra.
Io, la mia donna, et lei venivamo stanotte p[er] notificarvi il tutto: e trovarvi intorno a
quella porta che la mag[nificen]za V[ostra] volle forzare; per amor di costei hora da bene.
Niccolo.
Perdonatemi tutti gli huomini son di carne.
Bigio.
La S[ignoria] V[ostra] ser voi, no[n] é giá quello, che mi tolse la Chiave, et mi dette il mozzanigo.~
[f. 17r]
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Niccolo.
Hora, si scopriranno tutte le maccatelle.
Cesare.
Dice il vero questo matto, la v[ost]ra vesta co[n] inganno fu rubata da colui, di chi sono cotesti
panni, p[er] farvi (a parlar netto) vergogna in casa: Chi la tolse, et come l’é andata
udirete, come tutti siamo in casa.
Niccolo.
Ringratiato sia Dio, Io son tornato a mano, a mano in me: et potró co[m]parire.
Caterina.
Bigio, lo Stufaiuolo s’é rivestito, et passeggia al fresco.
Bigio.
A suo posta, e io andró a sedere al caldo: poi che noi habbian p[er]duto la casa.
Caterina.
Chi fa il conto senza l’hoste, l’ha a far due volte. messere, va su co[n] il capo pieno di fa[n]tasia
p[er] veder che spirito era quello tentennava la lettiera.
SCENA Va. Stufaiuolo solo.
Chi direbbe ch’io fossi quello di quel berrettino di paglia.~ no[n] paio un ge[n]tilhuomo.~
tal mi diceva ignudo, poltrone: che mi dará hora vestito del signore. Hor su il mo[n]do
é una gabbia da pazzi. La Virtú no[n] vale una stringa: se la no[n] ha di quei tiffi taffi 42Tif taffii: suono che imita il fruscio o lo sfregamento dei tessuti (GDLI).attorno.
come si sente sonar quella seta, le sberrettate volano; signor si, messer quá, et mag[nifi]co la.
Se fusse l’Imperadore, in un saio di cottone, e toccherá del tú. Facciamo a dire il vero –
che cosa é la ricchezza sola, alla fine.~ Et pur di tutti i ricchi é tenuto conto: (da i piu dico)
che de virtuosi. Io ho lavato nella mia stufa di grandi huomini, iquali venivano de[n]tro
nudi; io no[n] conoscevo differenza alcuna, et la mandavo tonda43In malora. all’uno, et all’altro.
Ma poi nello spogliatoio; questo era di velluto, et quell’altro di saia: in modo che io –
attendevo a quelle sete; et lasciavo il panno da un canto. Vien veggendo poi, i –
mal vestiti erano i sapienti, et mi dicevano di belle cose. Et quegli altri parevano
un pezzo di carne co[n] due occhi. Vedete a cioc[he] noi siamo sottoposti, p[er] la spera[n]za di
tre quattrini di piu, e tal volta la va di pari. noi siamo schiavi de ben vestiti. Volete –
voi altro che mi crepa il cuore di si fatta stoltitia del mondo. Se lo dicessi un morto;
tutti habbiamo a essere alla fine nudi. No[n] ne porterá piu il Re, che ’l filosopho: Tanto
varrá il lino, qua[n]to la stoppa. Basta, ringratiato sia Dio; Io sono uscito di Stufaiuolo,44Da intendersi sia come professione che come appellativo.
dice bene il vero, chi ha d’haver ve[n]tura: sia dove si voglia: poco senno basta, la lo trova
in sin’ nelle stufe. Io me ne andró a Genova co[n] questo ricco mercata[n]te; con la Druda
la quale sposeró (forse in v[ost]ra presenza) come ho dato la fede: et usciró di stenti. Ho –
quanti casi inpoche hore sono accaduti.~ ne vedrete de gli altri, et qui e altrove, il mo[n]do
é sopra un certo carro, che gli sdrucciola malame[n]te: Lasciami accostare, et entrare
un poco nella lega de ge[n]tilhuomini, et del signor si, et signor nó, bacio la mano, et servitore.
in effetto il mondo é una comedia che no[n] ci manca nulla. Tic, toc, tac, toc, Dio sa
se sentiranno battere, in tanto piacere debbono essere. Tic toc.
SCENA VI. Stufaiuolo, Bigio, et Caterina:~
[f. 17v]
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Bigio.
Chi batte.~ O Stufaiuolo; tu sei si razzimato tu mi pari un cesso ripulito; tu no[n] sapete voi45Si noti il brusco passaggio dal 'tu' al 'voi'.
che quello che mi rubó i panni, et la Chiave mi dette da imbriacarmi; era fratello di
Laura, et era inamorato di lei, et no[n] sapeva che la fosse sua sorella. Il bello fu che egli
entró nel letto p[er] contrafar messere, et in cambio di madonna Laura vi trovó la Taddea
che dormiva; vedi bella cosa, apunto l’era fracida di lui, et fecion nozze.
Stufaiuolo.
Io so ogni cosa, et madonna Maddalena é stata quella che ha riconosciuto suo figliuolo,
et gli ha fatti torre per marito, et moglie: et io ho presa la Druda Cortigiana.
Caterina.
Io voglio te Bigio, lo diró a messere; se tu no[n] gne ne di tu. tu m’hai promesso di lá
sul letto piu tre volte.
Stufaiuolo.
Sará ben fatto, che sarete una coppia, e un paio; cosi beccheremo tre sponsalitij a un otta.
Lasciami andar di sopra, a farmi vedere.
Caterina.
Senti, che vengono a punto tutti giú tutti: credo che voglino andare a casa, la mag[nifi]ca mad[onna] Tad[de]a.
Stufaiuolo.
Buon pró vi faccia signori Eccellentissimi. Perdonatemi mag[nifi]co messere.46La battuta appartiene logicamente alla scena successiva.
SCENA Ultima Tutti sul palco della scena:~
Niccolo.
Io ti perdono, messersi. volentieri, Io ti perdono.
Cesare.
Ben venga m[esser] Gottardo: e no[n] si dirá piu stufaiuolo.
Stufaiuolo.
I panni rifanno le stanghe;47Gli abiti abbelliscono l'uomo. Io ho gia guadagnato co[n] essi il messere: pian piano andremo alla Sig[nori]a.
Laura.
O padre caro mio, o fratel mio buono, chi havrebbe mai creduto dopo tanti anni, e tanti
travagli, che noi fussimo insieme co[n] tanto diletto.~
Niccolo.
Per l’allegrezza, no[n] posso spiccar la parola.
Bigio.
Messere io ho pensato madesi; d’uscire di ta[n]ti fastidj.
Niccolo.
In che modo.~
Bigio.
Io voglio tor qui la v[ost]ra fante di cucina.
Caterina.
Vedi balordo; di madonna Caterina.
Bigio.
La Signora Caterina p[er] moglie, et copularmi in legittimo adulterio.
Bigio.
Ecco fatto, et bello.
Niccolo.
Tu no[n] facesti mai, il piu cattivo. Io son contento.
Caterina.
Io gli dó qua[n]ta dote e vuole; ma io ne voglio un contratto; confessa ancora di quei cor –
nabó che gli ho dati: et darognene de gli altri.
Cesare.
Buono, o buono.
Bigio.
Voi che mi darete Signor Vincenzo.~
Vincenzo.
Io ti vestiró tutto di nuovo; poi che ho trovato, padre, madre, sorella, et moglie a un tratto.
Caterina.
Voi mag[nifi]co m[essere] che mi darete p[er] honorare il mio maritazzo.~
Niccolo.
Quella testa che ha le ghiere d'ariento, di cerbio grande49Probab. testa impagliata di cervo le cui corna sono attaccate con anelli ('ghiere') d'argento. p[er] metterla sopra la sua arme.
[f. 18r]
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Caterina.
Lo provederó ben io di cimieri, no[n] vo privar la casa di si bella reliquia, datemi altro.~
Laura.
Andiamo che no[n] mancherá da dare a tutti.
Druda.
Si che noi staremmo tutta notte qui.
Stufaiuolo.
Voi, vedete spettatori, le nozze di Taddea si vanno a hordinare co[n] tutte l’allegrezze
che sien possibili: quelle del Bigio si faranno magrame[n]te. Chi vuol di quelle buone
et grasse, se ne vadia, et chi di quelle di Caterina torni un’altro giorno. Delle mia
a dirvi il vero no[n] mi basta l’animo di dir venite domani; come voi mi vedete cosi mi
scrivete: Sel signor mercatante mi donerá qualche cosa che io le possi fare; sarete
de primi invitati. Per istasera, voi siate licenziati:~

Il fine della Comedia:~

Notes

1. Pier Donato Cesi (Roma 1521 - ivi 1586), membro della famiglia Cesi che fiorì fra l'Umbria e il Lazio fra i secc. XV e XVII, occupando diversi feudi pontifici. Pier Donato (detto seniore) fu vescovo di Narni fra il 1546 e il 1566 (cf. Dizionario Biografico degli Italiani). Sono grata a Marc Smith per lo scioglimento di et cetera; Smith pensa che uno svolazzo alquanto goffo (dal Doni?) sia stato aggiunto sopra il normale e c.Go back
2. In fondo alla pagina nota di possesso: Francisci LiteratiGo back
3. Gli spartiti degli intermezzi qui menzionati non sono stati localizzati. Doni era un musicista e un compositore molto rispettato, come dimostra il suo Dialoghi della Musica, pubblicato a Venezia nel 1544. Non nuova è anche la pratica di accompagnare le sue opere con pezzi musicali; si veda infatti il manoscritto delle Nuove Pitture, datato 1560 (Ms Patetta 364 della Biblioteca Vaticana) che contiene una serie di pezzi musicali dopo il testo principale. Tali brani rappresentano una curiosità codicologica: infatti le note sono rappresentate in forma di sonagli, campanelle, fori e topi (si veda l'edizione facsimilare Le nuove pitture del Doni fiorentino: libro primo consacrato al mirabil signore donno Aloise da Este illustrissimo e reverendissimo: Biblioteca apostolica vaticana, ms. Patetta 364, a cura di S. Maffei, Napoli, La stanza delle scritture, 2006)Go back
4. Senza vincoli legali, more uxorio, probabilmente.Go back
5. Strumenti usato per i salassi (GDLI), ma con riferimento alle corna, un tema ricorrente in tutta la commedia.Go back
6. Cf. La Mandragola, Atto III, sc. II.Go back
7. Attori. La forma si deve preferire all apure possibile "gl'istrioni", anche sulla base di "L’autorità del Carafulla, strione della mia comediadello Stufaiuolo (La Zucca, Ic 16 9).Go back
8. Togliere bruscamente la parola.Go back
9. La licenza per andare in giro di notte. In molte città era d'obbligo ottenere una licenza per aggirarsi per le strade dopo una certa ora, per non essere scambiati per criminali o prostitute.Go back
10. 'Avete necessità'.Go back
11. Moneta in uso in Piemonte e a Milano, ma qui scelta per il suo nome evocativo, come in La Zucca, Ib 24 61.Go back
12. Portare polli: favorire una tresca amorosa (GDLI).Go back
13. La battuta è analoga a La Zucca, IVc 53 7, dove viene attribuita al servitore del Doni.Go back
14. 'A mo’ d’archetti': forma di risposta evasiva, quando non si vogliono dare notizie precise (GDLI)Go back
15. Il passaggio da skj to stj è tipico del fiorentino post-quattrocentesc (Paola Manni, (1979), "Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco", Studi di grammatica italiana, 1979, n. 8, pp. 115-179, § 3).Go back
16. 'Tanìe': litanìe, storie (GDLI). Go back
17. 'Fare mula di medico': attendere pazientemente i comodi altrui, perdere tempo in attesa di qualcuno (GDLI).Go back
18. Il passo serve a collocare il tempo del racconto alla notte fra il 28 e il 29 gennaio. Infatti, sembra molto probabile che il patrono degli stufaioli fosse stato San Calogero di Perugia, che uscì indenne da una stufa ardente. San Calogero si ricorda il 29 gennaio, che cade durante il periodo di carnevale, periodo menzionato l'inizio della scena V.Go back
19. Proverbio, probabilmente per catafora (cf. Zucca, I p 1 4).Go back
20. 'lieva la gamba': Dio ce ne liberi (GDLI)Go back
21. Brachiere: sospensorio, fascia di cuoio per sostenere l'ernia intestinale o inguinale (GDLI).Go back
22. Trovare l'inchiodatura: trovare il modo giusto per fare qualcosa (GDLI)Go back
23. Il magistrato alle Pompe si occupava di sovraintendere al rispetto delle leggi suntuarie. Go back
24. I Signori di Notte erano la principale magistratura criminale delle Venezia dogale. Devono il loro nome al fatto che inizialmente la loro giurisdizione si limitava a crimini commessi di notte; col tempo li reati di loro competenza si allargarono molto, il che contribuì all'assunzione dei Signori di Notte a un ruolo centrale nella magistratura veneziana. Go back
25. L'espressione è curiosa e potrebbe avere connotazione dialettale (l'uscita -ao per -ATUS è tipica di alcune parti della laguna veneta). Potrebbe tuttavia trattarsi di una semplice svista dell'autore-copista.Go back
26. 'Inzuccare': bere vino oltre misura (GDLI).Go back
27. Venezia aveva aperto un proprio consolato ad Aleppo (Siria), in territorio Ottomano nel 1548, che è probabilmente il periodo in cui la commedia fu scritta (cf. Introduzione); non è escluso quindi che questo possa essere un allusione all'evento. Go back
28. Lo stesso adagio si ritrova in La Zucca, IVb 49 47.Go back
29. Anche questo proverbio si ritrova in La Zucca, IVb 43 32.Go back
30. 'Tirare il cordovano': burlare, prendere in giro (per una spiegazione approfondita dell'origine dell'espressione cf. La Zucca, IIIc 7 10).Go back
31. L'espressione è chiara nel significato ('addormentarsi'), ma dubbia in quanto all'origine; l'unico significato attestato è 'pigolare', vale a dire il verso tipico degli uccellini e pulcini, il cui impiego metaforico non è del tutto chiaro.Go back
32. La sonorizzazione della velare intervocalica (miga per mica) è tratto tipico del veneziano, e una delle poche caratterizzazioni linguistiche dei personaggi in senso settentrionale.Go back
33. Il Bosco di Baccano (oggi Valle di Baccano) è un'area boscosa situata a est del lago di Bracciano, attraversato dalla via Cassia e famoso dal Medioevo in poi per essere infestata dai ladri.Go back
34. Il passo non è chiaro, forse semplice dittografia.Go back
35. Non è chiaro se la ripetizione della congiunzione sia da imputare a errore o alla volontà di aumentare l'espressività dello scambio alquanto concitato. Il fatto che la congiunzione appaia alla fine della riga e sia ripetuta all'inizio della successiva, oltre al fatto che tale ripetizione non sia presente in R, fa pensare piuttosto all'errore. Nel dubbio si è comunque preferito ritenere la ripetizione. Go back
36. Il riferimento a Padova, qui e altrove, non è altrimenti chiaro. Forse si tratta di un riferimento generico a un'altra città, oppure di un adattamento geografico del proverbio "A Lucca ti vidi", con significato di incredulità, come in Atto IV, Sc. IV. Go back
37. Ancora una volta il riferimento è alle corna, elemento comico caro al Doni (si veda, per esempio, anche la Baia Ultima dedicata 'Al Cornieri da Corneto' in La Zucca, Ib 24).Go back
38. Il cerchio era uno dei simboli più comuni per locande e mescite.Go back
39. La Torre alle Bebe, roccaforte presso Chioggia che tradizionalmente marcava il confine dei possedimenti di Venezia e Padova ebbe un Podestà a partire del sec. XII fino al 1607 (Da Mosto, p. 14).Go back
40. Di fede commessi: inalienabili per ipoteca o altra obbligazione.Go back
41. La famiglia Spinola è una delle più importante famiglie dogali di Genova.Go back
42. Tif taffii: suono che imita il fruscio o lo sfregamento dei tessuti (GDLI).Go back
43. In malora.Go back
44. Da intendersi sia come professione che come appellativo.Go back
45. Si noti il brusco passaggio dal 'tu' al 'voi'.Go back
46. La battuta appartiene logicamente alla scena successiva.Go back
47. Gli abiti abbelliscono l'uomo.Go back
48. Allusione all'espressione saltare al granata, vale a dire uscire dalla tutela dei superiori, affrancarsi, con riferimento al gergo militare dove alle reclute si chiedeva di saltare una scopa adagiata in terra per marcare la fine del periodo di addestramento (Note al Malmantile, VI 66). Go back
49. Probab. testa impagliata di cervo le cui corna sono attaccate con anelli ('ghiere') d'argento.Go back